UN TEMPO DA ATTRAVERSARE.

Di Maria Sveva Scaglione

La serie di fotografie di Tammy Rae Carland (artista Americana a tutto tondo) intitolata “I’m Dying up here”, letteralmente “Sto morendo quassù” si concentra sul tema della solitudine, che in questi mesi è diventata ormai una solitudine forzata, obbligata, necessaria per la sopravvivenza. Eppure, non è necessario alla sopravvivenza anche il contrario esatto della solitudine? Potersi vedere, toccarsi, essere parte di una comunità, un “noi”?

Nella serie fotografica, Carland ci mostra delle figure che paiono essere colte di sorpresa, a metà di un azione, ma senza che si veda il loro viso, forse per dare a tutti la possibilità di immedesimarsi nel soggetto della fotografia.  Le figure di questa serie sembrano tutte in attesa di qualcosa, di un avvenimento, ma anche solo di svelare sé stesse. Il tema dello svelarsi, togliersi il velo (vedi I’m dying up here, #1 Strawberry showcase sotto) si ripete per tutta le serie, come la voglia di uscire, mostrare un lato di sé che si pensa di aver scoperto in questi giorni di solitudine, consapevoli del fatto che forse ci sia qualcuno la fuori che non solo si aspetta di vedere noi ma anche ciò che siamo diventati. Un pubblico che si aspetta che ci togliamo il velo, che ci mostriamo per come siamo diventati. 


Tammy Rae Carland
I’m Dying Up Here (Wood Suit), 2010
C-Print, 30 x 40 in. / 76.2 x 101.6 cm
Edition of 3 (2AP)
Courtesy of the artist and Jessica Silverman Gallery, San Francisco

Al contempo, la nostra paura della percezione del pubblico, che potrebbe non ascoltarci o forse peggio, giudicarci in modo erroneo, in un ritorno alla realtà che invece che essere “felice” come tutti lo immaginiamo assomigli, ancora, alla realtà distopica in cui stiamo vivendo adesso.  L’ispirazione per queste opere è stata data infatti dalla Stand Up Comedy, un tipo di commedia dove una persona sta su un palco e cerca di far ridere il pubblico. Normalmente, però, queste sono scene ilari, che ci fanno sorridere. Nelle opere di Tammy Rae Carland si toglie la magia del rapporto intrattenitore-pubblico e si crea invece un oscuro focus sulle emozioni che si provano a venire messi “sotto esame”. Stesse emozioni che secondo me ora provano i nostri medici, gli infermieri e personaggi come Angelo Borrelli, capo della Protezione Civile, ogni giorno insultato e giudicato per il suo lavoro. Perché siamo pieni di rabbia verso la figura che crediamo responsabile del nostro isolamento, quando in realtà la colpa non è di nessuno.  È solo che non avendo nessuno con cui prendercela, dobbiamo necessariamente puntare il dito verso qualcuno, che guarda caso è un umano, esattamente come noi, che sta vivendo la nostra stessa situazione ma sotto il riflettore, sotto il giudizio di 60 milioni di persone. E credo che tutti noi dovremmo ricordarci che prima o poi tutti verremo messi sotto un riflettore, giudicati, e sarà quello il momento in cui di più desidereremo coprirci il volto, non mostrarci. Ma non possiamo nasconderci per sempre, così come non saremo in questa situazione per sempre. 

Ora come ora siamo soli, ma uniti dallo stesso desiderio e dalle stesse incertezze; che questo possa essere forse un trampolino di lancio per un futuro migliore, lo speriamo tutti.  Ma che ci sia la possibilità di venire inghiottiti dal buio, come i personaggi della Carland, per quanto tutti ne siamo consapevoli, questo non ci permette di sentirci meno spaventati. Cosa fare per evitare ciò? Non lo so. Ma di sicuro sarà occasione per l’arte di raccontarci una nuova società, una nuova realtà e di rendersi, come ha sempre fatto, testimonianza storica ed emotiva di questi momenti. 

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