Di Sara Patrizia Tortoriello.
C’è un luogo a Napoli dove l’arte non si espone soltanto: si riflette, si moltiplica, si interroga. È la Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta – Lapis Museum, nel cuore dei Decumani, dove dal 10 maggio al 28 settembre 2025 prende forma la mostra “Picasso. Il linguaggio delle idee” che ripercorre la vita e le opere del più longevo artista del Novecento, curata da Joan Abelló con Stefano Oliviero. La mostra racconta l’artista nato a Malaga, non attraverso le sue opere più note, ma attraverso i suoi pensieri, le sue ossessioni, le sue metamorfosi. Sotto la cupola barocca, alta 65 metri, si stende un pavimento maiolicato settecentesco, opera della stessa bottega del chiostro di Santa Chiara. Un tappeto di riggiole dipinte a mano, protetto da un pavimento flottante in vetro trasparente che consente al visitatore di camminare sull’arte senza calpestarla. In questo spazio sospeso tra cielo e terra, tra sacro e profano, si snoda un percorso espositivo che raccoglie 103 opere di Picasso provenienti da collezioni private: litografie, ceramiche, incisioni, gouache, manifesti, fotografie. Un viaggio attraverso otto sezioni tematiche che raccontano il Picasso meno conosciuto, quello che si cela dietro le maschere di Arlecchino e dei Saltimbanchi del Periodo Blu, che si diverte a plasmare la ceramica come un artigiano e un alchimista, che si lascia fotografare nella sua quotidianità più intima. Lo ritroviamo in due “after works”: Les Saltimbanques au chien e Arlequin et sa compagne, rielaborati a distanza di decenni, come se Picasso stesso dialogasse con le sue maschere interiori. Dal 1951 al 1956, nel laboratorio Madoura a Vallauris, crea picadores, corride, teste caprine e civette con piume, sculture parlanti, che tengono insieme il pop e l’ancestrale. Non mancano i manifesti delle mostre storiche, le litografie femminili e due splendide serigrafie su lino che portano in scena gli ideali rivoluzionari degli anni Cinquanta, come i foulard dei “Festival Mondiali della Gioventù e degli Studenti” dei ragazzi di Berlino e Mosca in marcia per la pace. Ma il cuore emotivo dell’esposizione batte nella sezione fotografica. Quindici scatti di Edward Quinn e André Villers, amici e confidenti, ci restituiscono un Picasso domestico e teatrale: con Jacqueline, con i figli, con Esmeralda la capra. C’è persino uno scatto irresistibile in cui posa da Braccio di Ferro, istrione immortale.

La mostra si fonda su un principio etico e curatoriale: evitare il “saccheggio” della figura di Picasso a favore di mostre senza contesto, un rischio già denunciato da Claude Ruiz-Picasso, scomparso nel 2023. Viene inoltre declinata la parabola barcellonese dell’artista, dal legame con Els Quatre Gats al Reial Cercle Artístic, fino alla celebre calle d’Avignon che ispirò Les Demoiselles. Il legame tra Pablo Picasso e Napoli risale al 1917, in occasione del suo primo viaggio in Italia, quando cura scene e costumi della compagnia dei Balletti Russi di Sergej Djagilev per la produzione di Parade, balletto d’avanguardia con musiche di Erik Satie e libretto di Jean Cocteau. Picasso entra per la prima volta in contatto con il teatro e con un mondo visivo fatto di maschere, archetipi e gestualità. Durante il viaggio, tra Roma, Pompei e Napoli, la visione delle rovine classiche, dei mosaici pompeiani e delle maschere della Commedia dell’Arte, tra cui Pulcinella, lo colpisce profondamente. Napoli, in particolare, con il suo carattere teatrale, barocco e vitale, rafforza in lui un’idea di “popolare” che si rifletterà in seguito in opere e costumi, basti pensare a Le Tricorne, altro balletto del 1920 ambientato in Spagna, i cui costumi, in mostra a Pietrasanta, portano tracce evidenti di quella fascinazione mediterranea. La sua è un’energia mitologica, veramente di fuoco, di sole e di acciaio.

La mostra alla Basilica vuole indicare un’idea precisa, ovvero che Picasso va compreso attraverso la molteplicità dei suoi linguaggi, tecniche e travestimenti artistici. Arlecchino, minotauro, saltimbanco, amante, tiranno, comunista, monello. Picasso è stato tutto questo, e tutto ha trasformato in linguaggio. Questa molteplicità non è solo una dimostrazione di abilità tecnica, ma rappresenta la sua visione dell’arte come mezzo per esplorare e comprendere la complessità dell’esperienza umana. Dalla Malaga andalusa alla Barcellona modernista, dalla Parigi bohémien alla Napoli delle maschere, Pablo Picasso è il protagonista inquieto di un secolo fatto di guerre, rivoluzioni, passioni e avanguardie. Fin dagli esordi, la sua arte si fa voce dei marginali: mendicanti, ciechi, clown, acrobati. La commedia umana che riempie i suoi primi periodi, blu e rosa, è il teatro della vita. Ma è con Les Demoiselles d’Avignon, tela esplosiva come una carica piazzata nella pittura occidentale, che Picasso inventa la scomposizione del visibile. Immaginate cosa significa attraversare un secolo trasformando le figure umane in contorsioni, in rotture, in frammentazioni. È come se avesse piazzato degli esplosivi intorno alla figura umana e li avesse fatti saltare in aria.

Influenzato dalla scultura africana, dal pensiero di Cézanne, dalle maschere e dai miti, crea un nuovo spazio percettivo: il cubismo, che non distrugge la forma, ma la reinventa. Abbandonando la prospettiva lineare rinascimentale, i cubisti hanno introdotto una rappresentazione simultanea di più punti di vista, scomponendo e ricomponendo le forme in piani geometrici. Questo approccio ha permesso di rappresentare la realtà in modo più dinamico e complesso, riflettendo le molteplici percezioni dell’osservatore. L’interesse per la quarta dimensione e per le teorie scientifiche emergenti ha influenzato i cubisti a rappresentare non solo lo spazio, ma anche il tempo e il movimento all’interno delle loro opere. Eppure, ogni volta che sembra aver creato uno stile, Picasso lo abbandona. Diceva con la fierezza dei matti e dei bambini: «Io non cerco, ma trovo» E trovava in ogni materiale un alleato: tela, carta, ceramica, ferro, lino, gesso. Per lui arte e vita erano inseparabili, come la corrida e la preghiera, come la bellezza e la violenza. «Se hai paura del fuoco, diventa fuoco» l’artista segue la lezione: si lascia rapprendere dalle fiamme dei suoi demoni, li materializza sulla tela e inventa un nuovo linguaggio. Picasso non vuole che lo si capisca, vuole che lo si attraversi. Ogni opera è una soglia. Ogni tecnica è un’altra voce. Ogni maschera, un urlo. Picasso è un artista che ruba al mondo, lo rimonta e lo restituisce sotto nuove forme. Con le mani tramuta rifiuti e resti in poesia. Una sedia rotta diventa una scultura. Un manifesto diventa una dichiarazione politica. Una donna amata diventa un volto cubista o un dolore inciso. L’artista dipinge come vive: senza limiti, senza fare troppi programmi, senza fissare obblighi o regole. A lungo è stato solo uno straniero, un Arlecchino allegro e struggente, protettivo e violento. La bestia feroce vestita con il costume a scacchi colorati. Un palcoscenico di figure, senza volto, ma piene di gesto. Costumi che sembrano fluttuare, stampati su carta ma vivi di musica, movimento, ironia. Picasso qui non illustra il teatro: lo reinventa, lo assorbe, lo trasforma in idea visiva pura.
L’artista spagnolo ci ammalia davanti alle sue opere ricche di forme spezzate e talvolta brutali, con occhi sbarrati, grumi e matasse di colori, che rimandano alla figura umana anche quando deraglia in slanci capricciosi nella sfrenata ricerca di segni. Picasso è un terremoto che ha l’epicentro nella storia dell’arte e nella natura da cui prende ogni cosa che gli capita a tiro. Ha preceduto tutti e ha intuito per primo il valore plastico ed espressivo di ogni oggetto, si pensi al sellino e al manubrio di una bicicletta, trasformato in un simulacro di toro. Non vuole essere in dialogo con nessuno, se non con il suo genio e con i capolavori di ogni tempo, che scompone fino all’osso ricavandone un distillato che oltrepassi la sua morte e segni per sempre tutte le vicende del Novecento, uno dei più spaventosi secoli della storia dell’uomo. In fondo le atrocità che Picasso rappresenta sono quella carne martoriata che grida in Francis Bacon e prima di lui nelle allucinate ombre di Giacometti e negli artisti costruiti dal mercato, intenti ad impiccare pupazzi o smembrare mucche, la cui ossessione per la morte appare persino superata dalla brutalità reale di chi, nelle guerre contemporanee, uccide prigionieri sotto gli occhi del mondo. Non vuole scandalizzare o terrorizzare ad ogni costo, ma ha fatto tutto ed il contrario di tutto, senza essere debitore di nessuno, perché divora in continuazione stili e sapori diversi di ogni epoca. E’ un genio e come tale ha tutto il diritto di non farsi capire. A chi non lo comprendeva disse: «Lei comprende la lingua cinese?» Risposta “No!”. “Allora la studi, così come deve studiare il mio linguaggio”. Eppure Guernica (1937), il suo capolavoro, è un monito che spaventa per l’esattezza e la sublimazione dell’orrore, proprio com’è tipico di chi ha una visione trascendente della storia. Quella madre deformata da un incontenibile urlo di dolore, porta uno straccetto di bambino morto, col capo arrovesciato indietro che fa pena e non succhia più né aria né latte. È l’emblema di tutti noi.
Quell’urlo ragionato di Picasso percorre tutta la sua opera e si placa nelle sue composizioni magistrali, desunte dalle migliori tradizioni classiche, come le acqueforti degne di Rembrandt e di Goya. La mostra a Napoli lo dice chiaramente: non c’è un solo Picasso, ma molti. È la molteplicità delle tecniche, la varietà dei supporti, il fluire instancabile della forma che definisce il “linguaggio delle idee”. Un linguaggio che è sempre suo, anche quando cambia. A Napoli, dunque, non si visita solo Picasso: lo si attraversa. E uscendo, si ha come l’impressione che la realtà stessa, per qualche istante, si sia piegata al linguaggio delle idee. Chi cerca la mostra “definitiva” su Picasso qui troverà invece una mostra necessaria. Necessaria per capire che l’arte è ancora uno strumento per pensare, ridere, cambiare. Necessaria per Napoli, che non celebra, ma accoglie. Necessaria per chi, stanco di repliche e gigantografie, vuole tornare al dubbio, alla materia, al gesto. Perché, come scriveva Apollinaire, amico di Picasso: “È ora di accendere le stelle”. E a Napoli, sotto un cielo maiolicato, lo stanno facendo.