Biennale di Architettura: un successo imprevisto!

Un successo imprevisto, dal primo giorno di apertura alla stampa e poi per il pubblico per una Biennale di Architettura che sancisce la fine delle Archistar! Spazio democratico e presenza selezionata attraverso una call, molte presenze giovani e inedite. Ed era ora. Può essere questa la sintesi più interessante e coinvolgente di questa curatela della 19° edizione della grande mostra di Venezia con la partecipazione di tante realtà europee ed internazionali: 66 nazionali (erano 63 nel 2023), 26 quelle ai Giardini, 25 all’Arsenale, 15 diffuse nella città storica di Venezia, 4 nuove, ovvero Azerbaijan, Sultanato dell’Oman, Qatar, Togo.

Due giovani visitatori della Biennale 2025, in un momento di pausa

Fatto salvo il raffinatissimo e intelligente padiglione spagnolo, i padiglioni stranieri scontano uno scarto negativo tra mostra del curatore e singole presenze nazionali. Si fanno notare gli spazi cinesi e taiwanesi, il piccolo, interessante spazio del Bahrein, il Belgio con la serra verde/ecologica cui ha contribuito Stefano Mancuso, il progetto di allievi e docenti di Architectural Association, “Margherissima”, che prova a reimmaginare il grandissimo hinterland industriale veneziano nell’habitat dei cittadini del futuro. Una proposta redatta sotto la guida di Nigel Coates ironica, efficace, e anche in queto caso necessariamente visionaria dentro una Biennale ricca di spunti. Occorre però dire che la mostra centrale, curata da Carlo Ratti, surclassa tutte le altre presenze, soprattutto, come ricordato, per la quantità di proposte.

Una immagine del Padiglione della Spagna

Intelligens si rivela così, come nella mente del curatore, una partecipazione collettiva che accoglie soprattutto tante voci nuove e inedite, top-down, attraverso una chiamata alle arti di tutti coloro che hanno riposto alla Open Call, ovvero circa 800 partecipanti da tutto il mondo esposti nella grande e densa mostra. Del resto, chi, come Carlo Ratti, ha scritto libri come “Architettura Open Source”, affrontato argomenti sulla città condivisa, mappata, dei bit e dei flussi, svolto ricerche al MIT su temi emergenti e d’avanguardia, progettato opere di architettura “aperte”, non poteva, per coerenza e sensibilità, comportarsi se non con quest’atteggiamento pop. Per Ratti, affermando che è obbligatorio passare da mitigation ad adaptation, significa che gli architetti e l’architettura devono accogliere la grande sfida del con-testo climatico che muta lo scenario del nostro habitat rapidamente e ogni giorno. E se pure questa non è una novità, ovvero se ne parla da tempo e in diversi luoghi e occasioni, uno spazio importante come la Biennale deve offrire uno spunto di riflessione al mondo, non solo quello del progetto, su clima e ambiente, emergenze che ci condizionano e costringono ad un ripensamento quotidiano del vivere e abitare il pianeta. La densa serie di proposte che hanno invaso e riempito le Corderie dell’Arsenale, dato il restauro in corso del Padiglione centrale ai Giardini, è stupefacente per capacità di trasmettere multipli messaggi, complessi e diretti al contempo, all’indirizzo di ciascuna problematica che solleva il ruolo dell’architettura e degli architetti nella società contemporanea e nel futuro.

La serie di unità esterne della climatizazione nella stanza del grande surriscaldamento

All’ingresso dell’esposizione si legge questa secca e semplice dichiarazione curatoriale: “L’architettura è sempre stata una riposta al clima, un atto di riparo e sopravvivenza, fiducia nella vita…”, che sembra tratta dal bellissimo libro del compianto Joseph Rikwert, “La casa di Adamo in Paradiso”, che senza dubbio anche per Ratti, come per molti di noi è stato un libro illuminante. Una frase che è stata la chiave di lettura di tutto il progetto curatoriale, e che si conclude così: ”…l’architettura deve adattarsi essa stessa, spingendosi verso territori finora inesplorati”. E nella prima sala, che ci accoglie e ci spiazza, si palesano questa e altre urgenze: oltre 40 unità esterne dei condizionatori che raffrescano gli altri ambienti, ci sparano addosso una ondata di calore inverosimile e insopportabile, facendoci riflettere su quale mostruosità tecnologica/autodistruttiva ci siamo adagiati. Dunque, Intelligens mette in gioco anche l’intelligenza, l’ostinato (necessario) ottimismo critico del suo curatore che ha sempre scommesso in prima persona sulle sue ricerche, spingendosi in avanti oltre la normale apparenza professionale/accademica e credendo lui stesso in un possibile diverso futuro che qui viene evocato, prefigurato, tratteggiato anche in forme scabrose, a tratti, ma affascinanti, super futuribili, sostenibili, credibili e possibili.

La caffetteria all’aperto con acqua della laguna rigenerata

Nella Biennale di Ratti, espressa in forma di curatore di pensiero e non solo di spazio espositivo, si fondono fiducia e “speranza” progettuale nella tecnologia (domestica e addomesticata), radici di passioni cibernetiche, progetto come cambiamento, architettura come ricerca a servizio della civiltà. In tutto questo gioco tra la critica (seria) e il pettegolezzo (da bar), mi viene da ridere, ma mi rattrista anche la pletora di detrattori che si sono subito scagliati, lancia in resta, con la solita noiosa frase “ma dov’è l’architettura?…”, oppure anche più sofisticate di “detrattori” pludati, coloro che da tempo aspirano al ruolo di curare una Biennale e che non vedono l’ora di togliersi “sassolini” dalle scarpe. Per tutti questi generosi paladini di verità ipocrite, la risposta è che non serve cercare l’architettura tra le pieghe decrepite di un sapere accademico, italiano, ormai sempre più arretrato e precario, dunque superato, arroccato su posizioni conservatrici ad oltranza e incapace di intercettare la pur minima di idea di ricerca avanzata che possa realmente venire messa al servizio dell’architettura e soprattutto delle persone. Nemmeno serve cercarla dove la ricerca, necessaria, si spinge oltre i confini e i limiti della “professione” e dei danni incalcolabili che questa ha prodotto sulle nostre città e nei nostri ambienti di vita pubblici e privati. Le due questioni non sono scisse, ma fortemente unite da un circolo vizioso: università che sfornano “progettisti” nani e ordini professionali che ne tutelano i diritti a prescindere dal “prodotto” progettuale.

In forma rilevante tale questione emerge dalla visita alla Biennale di Carlo Ratti, ovvero sancire il distacco, ormai sempre più incolmabile, tra la cosiddetta “pratica professionale”, ovvero quella ordinistica, dei “tecnici” (parola abominevolmente vuota e ambigua) che con l’architettura non hanno nulla a vedere, a differenza di quelli che invece la fanno tra ricerca, sperimentazione e costruzione. I primi -protetti e annidati nei burocratici Ordini professionali- ci consegnano, da anni ormai, un paese privato di qualsiasi forma di bellezza e senza l’architettura, dedito piuttosto a pratiche burocratiche, stile 110% e altre povertà, tra le pieghe di una professione marginale, piena di mestieranti dell’edilizia spicciola, poverissima di colti e raffinati interpreti capaci di progettare spazi e forme originali. Gli architetti, ovvero gli eredi di una lunga, pregevole tradizione italiana che prende avvio dal Rinascimento, sono in netta minoranza, ma sono coloro che fanno la differenza in questo attuale, deprimente panorama italiano, perché progettano per realizzare “opere” che cambiano i luoghi, l’abitare, il vivere, anche quando si tratta di piccoli spazi, piccoli edifici, piccoli interventi. Lo dimostra, con limpida trasparenza ed eleganza, il padiglione spagnolo di questa Biennale: una visione ottimista del ruolo dell’architettura attraverso uno sguardo raffinato e intelligente in cui architetti, artisti, artigiani, fotografi, ricercatori tracciano nuove rotte possibili per un “balance” reale tra necessità e progetto, tra problemi del pianeta e soluzioni attraverso il progetto. “No hay estridencias. No hay florituras. No hay discursos enrevesados para gloria acadèmica de sus autores. Solo herramientas reales, lenguajes accesible y belleza onesta al servicio de lo comùn…”, (“Nessuno stridore, nessuna svolazzatura, nessun discorso contorto per la gloria accademica dei loro autori. Solo strumenti concreti, linguaggi accessibili, e una bellezza sincera al servizio del bene comune.”). Con questa limpida dichiarazione dei curatori del padiglione, Roi Salgueiro Barrio, Manuel Bouzas Barcala, (sostenuti dal Ministero per l’Housing e l’Agenda Urbana e da Acciòn Cultural Espagnola), si mettono in chiaro la missione e il ruolo dell’architettura e degli architetti, e come in Spagna anche i problemi del cambio climatico, dell’ambiente, dei materiali vengono affrontati e risolti attraverso il progetto e non con espedienti normativi e piroette “tecniche”.

Una considerazione ulteriore riguarda il ricordare il ruolo che hanno le Biennali (arte, architettura, danza, cinema, teatro), ovvero non inseguire il presente e quanto ci è più o meno noto, bensì indagare nuovi scenari e possibilità del progetto capaci di tracciare nuove rotte alternative e originali. Quindi a quelli che chiedono “ma dov’è l’architettura” la risposta è non cercatela nella Biennale. Il Padiglione italiano, questa volta curato in forma accademica-professionale da Guendalina Salimei, rivolto ad uno sguardo corale e collettivo sul rapporto tra mare e terra, è un calembour denso di proposte, disegni, ricerche che ci fanno riflettere sul delicato rapporto che abbiamo con questi importanti elementi naturali. Forse qui, nello spazio ampio dell’ultimo magazzino dell’Arsenale, l’affollarsi delle tante proposte, selezionate con una call pubblica, non aiuta a districarsi nel suggestivo dedalo di video installazioni, ma occorre, tuttavia, affermare che c’è tanta intelligenza italiana e tanto desiderio di cambiare quei luoghi, che spesso, per la nostra nota inerzia nazionale restano come sono. Anche su questa curatela si sono addensate critiche ingenerose, a tratti personalistiche, così come altre lucide nel ripercorrere un modello curatoriale che forse ha fatto il suo tempo e che spesso affida a troppa “personalistica” improvvisazione il significato di rappresentare l’architettura italiana. Ma è probabile che nel suo attuale tratto “sfuggente” la nostra produzione sia difficile da cogliere come espressione unitaria e coerente, così come accade invece nel padiglione della Spagna: noi siamo un paese atipico e ancora “romanico” come ricordava spesso il compianto maestro e amico Pasquale Culotta. E a proposito di maestri, merita di essere ricordato il Leone d’Oro postumo a Italo Rota, scomparso da poco, senza dubbio meritato in vita piuttosto che dopo la sua morte: un leone d’oro che sa di riconoscenza verso un mentore del pensiero contemporaneo, ben oltre l’architettura.

Carlo Ratti e il presidente Buttafuoco alla consegna dei Leoni d’Oro della Biennale

Questa Biennale di Carlo Ratti è come poche negli ultimi anni, una Biennale senza dubbio tra le più stimolanti, e il consiglio di chi scrive e ha avuto il piacere di visitarla è: vedere (con occhi nuovi) per credere!

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