Learning from Favara: cambiare i luoghi, si può, si deve!

di G. Pino Scaglione

Nel suo recente, originale, interessante libro “Placemaker”, Elena Granata, docente di Urbanistica del Politecnico di Milano, apre la sua riflessione allo scenario che negli ultimi anni, dal basso, con intelligenze e creatività, inventiva, sta modificando la percezione e la fisionomia di molto luoghi in Italia, in Europa. La Granata, non a caso chiama “Placemaker” i protagonisti di questa stagione, ovvero coloro che fanno i luoghi, con un neologismo che racchiude l’essenza di questa silenziosa, pacifica rivoluzione che sta modificando la geografia culturale, artistica, rigenerativa di molte realtà, fatta di azioni e non solo di riflessioni.

Favara di notte, Luca Chistè, 2021;

Desideriamo, non solo per missione, ma soprattutto per convinzione, partire nella nostra riflessione, dal Sud, in cui tutto è, tra apparenza e realismo, senza dubbio più difficile, ma a volte anche più facile. E partire da una esperienza che la stessa Granata cita nel suo libro, ovvero Favara Cultural Farm, una straordinaria intrapresa culturale della geniale coppia Andrea Bartoli e Florinda Saieva, insieme ad uno stuolo di visionari locali e internazionali, tra i quali Richard Florida e Dan Pitera, che hanno intravisto in questa Fattoria della Arti un’interessante applicazione dei loro principi teorici sul ruolo propulsivo della cultura urbana. Andrea Bartoli, in particolare, geniale visionario, notaio per vivere, artista e designer per “sopravvivere”, che ha fatto sua, tra le altre, la lezione del fallimento di Detroit, ovvero la crisi della grande città produttiva della modernità, la crisi del modello capitalista, trasferendo le teorie di “Stalking Detroit”, ovvero del declino del modello produttivo circolare verso quello lineare, nella sua Favara, è il regista attivo, instancabile di questa fabbrica di placemakers, verso la quale convergono ormai da ogni luogo studiosi, ricercatori, artisti, architetti, illustratori, creativi, turisti, curiosi. Un luogo del nulla, dello squilibrio ecologico, urbanistico, sociale, una cittadina di 33.00 abitanti che nel surplus di case realizzate dagli anni del “Boom” in poi, ne può contenere precariamente anche 70.000, una piccola città che diventa laboratorio a cielo aperto di una storia contemporanea che inverte la teoria del lamento che “al Sud non si può,” verso il Sud che cambia e lo fa con spessore e intelligenza, originalità.

Arrivare a Favara, alla ricerca della Farm è un viaggio da cercatori di eccellenze, un percorso ad ostacoli che si conclude nei “Sette Cortili”, il primo nucleo fondativo della Farm che ha costruito anche un immaginario iperrealistico dell’urbano moderno. Si resta attoniti osservando la distesa di edilizia sconnessa, confusa, povera e dilatata che compone oggi la scena cittadina, che accerchia i resti un centro storico fatto di case povere, costruite in gran parte con una malta gessosa e quindi soggetta a forte degrado, e in cui sovrastano i resti di palazzi nobiliari, anche questi in abbandono e alterazione. C’è voluta la morte traumatica di due bambine, nel 2010, Marianna e Chiara, abitanti di una delle tante marginali case di famiglie favaresi, dodici anni fa in uno stabile dei Sette Cortili, per convincere Andrea e Florinda a desistere dal loro trasferimento a Parigi, ma credo sia stato anche il forte richiamo delle radici, il desiderio di sfidarsi che alberga in ogni mente vivace, a far intraprendere ai nostri due moderni eroi la sfida di immaginare qualcosa di autentico e totalmente fuori dagli schemi soliti: acquistare case cadenti nei “Sette Cortili” e destinarli, da subito a residenze d’artista. Inizia così l’avventura del progetto di Farm Cultural Park, le prime case recuperate e adibite a spazi espositivi, a luoghi di residenza, piccoli bar e caffetterie, i primi interventi di artisti provenienti da più parti del mondo, in una Favara che non aveva mai visto un turista, un qualsiasi visitatore, perché luogo fuori da ogni circuito che non fosse l’edilizia di necessità e speculazione, il commercio locale l’agricoltura di prossimità. Favara non aveva un posto letto, ora ne ha seicento grazie al prezioso e continuo lavoro di Farm, quasi sempre occupati, così come le trattorie, bar e ristoranti; Favara è meta di visite costanti di studiosi internazionali, di giovani e non, di artisti e curiosi, di ricercatori, studenti, architetti, urbanisti, designer, grafici, amministratori pubblici, realtà aziendali, e questo è cambiamento reale, non già quello della politica sorda e distratta, delle università arroccate nei templi corrosi del desueto sapere accademico, degli intellettuali trincerati nelle loro neo-aristocratiche presunzioni.

L’ingresso della Farm ai Sette Cortili, Luca Chistè;

Favara è la nuova architettura di Lillo Giglia, architetto locale “figlio” intelligente della migliore scuola palermitana, erede della lezione di Pasquale Culotta e Bibi Leone, e di una schiera di eccellenti architetti-docenti che hanno animato questa esperienza formativa, per anni, nel cuore del Mediterraneo palermitano. Le opere di Giglia, che non nascondono affatto uno sguardo attento e un amore dichiarato per Le Corbusier, nella sua migliore declinazione mediterranea, oggi ha superato i confini locali, regionali, nazionali, e rappresentano la continuità dell’azione di Farm nelle pieghe degli spazi urbani, con ricuciture fatte di coraggiose sciabolate di pareti bianche, pulite, poetiche, razionali e passionali al contempo, autentiche perché giocate sulla luce speciale di questi luoghi. E come Giglia altri architetti locali hanno realizzato piccoli, preziosi interventi di rinnovo, riciclo, di spazi pubblici, tra i quali il temporaneo-permanente spazio urbano del giovane palermitano Francesco Lipari-OFL Architecture, di casa alla Farm, la piazza “Zigo-Zaghi” in un’area fuori dal centro, diventato un piccolo, ma denso parco urbano multisensoriale, un modello, ancora una volta di spazio collettivo sottratto all’oblio.  E anche se la piazza oggi non esiste più, per via della sua temporaneità, ha fatto scuola come altre esperienze nate e sviluppatesi in Farm, come parte di un percorso di sperimentazione avanzata, che a volte chiede di essere rimesso in gioco pure con la “sparizione” dopo l’uso.

Sempre nell’orbita Farm, a volte per caso o per destini incrociati, gravita Ionee Waterhouse, artista digitale, con radici favaresi, nata in California, autrice di percorsi di live video mapping urbani, digital sound design, le cui opere sono state presentate all’Andy Warhol Museum di New York, al Museum of Contemporary Art di Caracas, e in molte gallerie e luoghi privati. Ionee, oggi, lavora da Favara verso il resto del mondo, collaborando con musicisti, artisti, perfomers, in progetti che sviluppa insieme con il marito George Palmer.

Un lavoro quotidiano, dunque, quello della Farm, senza sosta, alimentato dalla passione, prima che da qualsiasi altro interesse, un lavoro faticoso, ma foriero di entusiasmo, così come di delusioni, ricco di umanità vera, curiosità, talento, intuizione, che un po’ alla volta genera una sequenza di idee, di innovazioni di percorso, capaci di scardinare i santuari consolidati dell’arte mummificata nei musei, modelli curatoriali superati, così come l’ormai inutile tradizionale “mestiere” del critico d’arte. Qui a Favara, sbiadiscono, ancora di più, i rovesci di medaglie consunte, di ruoli sorpassati dalla rivoluzione digitale, dalla pandemia più recentemente, dalla nuova ventata di artisti ai quali tutto serve, tranne la critica paludata che sceglie secondo parametri estetizzanti, consorterie, privilegi, mercato. Andrea Bartoli e Florinda Saieva, con tutti quanti ogni giorno collaborano con loro, in presenza, a distanza, hanno dimostrato che l’arte, l’architettura, il design, la grafica, la fotografia, possono e devono essere per tutti, servire a scopi sociali, unire anziché dividere, educare alla bellezza autentica e non sofisticata, raggiungere chiunque, a partire dai bambini, rompere la tradizionale “omertà” di chi si trincera nell’aristocratica maniera di giudicare senza vivere i luoghi, le opere, le azioni, le idee.

Ionee Waterhouse, “Creo en el amor”, digital sound art;

E proprio dai bambini che Favara Farm ricomincia per una educazione al bello che sia varia, dinamica, civile, fondativa di una nuova società attenta ai valori culturali e dell’arte come veicolo di una diffusa sensibilità e conoscenza, strumento di relazione e coesione. Nasce così nelle fertili menti dei fondatori, SOU, Scuola di Architettura per bambini, che oggi conta ormai una rete diffusa di sedi fuori Favara, che arriva al significativo numero di diciotto, dal nord al sud, in piccole e grandi città e centri, con diversi tentativi di repliche, che non scalfiscono la formula dell’originale, ovvero bambini, adolescenti, dai sette ai dodici anni, raccolti in classi creative, ai quali figure tra le più varie del panorama culturale e inventivo nazionale, tengono brevi lezioni educative e intensi laboratori del fare, dai quali nascono modelli, poster, disegni ricchi di quella straordinaria fantasia e acutezza che solo bambini e adolescenti possono esprimere.

Piccoli allievi di SOU, Luca Chistè;

Prima della Pandemia di Covid-19, Farm Cultural Park sforna l’idea di una Biennale delle Città, di cui “Countless City” è l’ultima edizione, tenuta lo scorso anno, e che ha raccolto, in tutti gli spazi espositivi possibili, una serie innumerevole di nazionalità con lavori site-specific di assoluta autenticità, e sarà la pandemia ad accelerare i progetti di Andrea e Florinda, quali Human Forest, una serra d’arte, tra vere, viventi piante verdi e opere di artisti, nei ripensati spazi di palazzo Miccichè, salvato dal crollo e dall’oblio e tutt’ora in progress: un vero inno all’ecologia, alla salvezza del pianeta, alla cultura della terra fertile di idee ed esseri viventi vegetali. Palazzo Miccichè, su tutti i recuperi di spazi in abbandono ad ora effettuati, fa emergere la filosofia della Farm: nel caos della modernità distorta, nel precario e nel non finito del meridione, è possibile far convivere arte e architettura senza che queste siano prevaricanti, bensì strumento per una nuova vita degli spazi in cui è consentito, tollerata anche la “sbavatura”, l’errore, un piccolo abuso che modifica, ma non altera, insomma una nuova narrazione che non sia ipocrita e fintamente neo-moderna, ma contempli l’errore e, a volte, anche il provvisorio, ma tradotti in segni compatibili con la nuova vita, il recycle, la nuova funzionalità e spazialità architettonica.

Un pò come accade a tutto il sud, di cui la Farm è “specchio delle mie brame” e in cui, come nella favola, si vede riflesso quel Sud giovane, bello, energico, attivo, colto, che esiste, ma che diffusamente è più facile ritrovare poi, nella realtà, deformato, alterato, mal finito, ancora molto ignorante e in perenne attesa, questa volta di nuovo miracolo sociale, non già economico. Perché proprio quel “miracolo” della raggiunta, agognata modernità ne ha trasformato i sensi e stordito le vere identità, in una ubriacatura collettiva che sembrava dovesse per sempre affrancarci dalla miseria antica e invece, nel peggio di essa, ci trattiene ancora, senza memoria, tanto quanto senza contemporaneità.

Cultural Park non replica, attua programmi, inventa nuove traiettorie, delinea scenari, costruisce reti lunghe e corte, proietta la sua influenza culturale fuori e dentro il proprio contesto, sparge semi, così nascono altri percorsi in ambito locale e nazionale, come “Prime Minister”, una Scuola di politica, sotto la vigile, amabile guida di Florinda Saieva. Una Scuola per giovani donne, future figure decisionali, in un mondo senza veri politici colti, preparati, curiosi, e poi “Plurals”, lo spazio delle generazioni di teenagers, oggi privati non solo di spazi, ma di poche certezze e prospettive di futuro.

Anteprima degli spazi di Mazzarino Embassy, dentro Palazzo Tortorici, in corso di allestimento; Pino Scaglione;

“Plurals”, come dice la stessa sigla, è luogo per riflettere su architettura, arte, design, grafica, cinema, musica, e nasce, ultima creatura arrivata, nell’Embassy, ovvero uno spazio “out Farm”, nella vicina, antica-moderna Mazzarino, all’interno di due palazzi attigui, Branciforti-Bartoli e Tortorici, ripensati dallo spirito progettuale visionario di Andrea Bartoli, con lo scopo di ospitare non solo l’arte e gli artisti di varie discipline, ma ricerche e ricercatori, visitatori e turisti esigenti, studenti e università da ogni parte del mondo.

Interni di Palazzo Branciforti-Bartoli, parte dell’Embassy; Pino Scaglione;

L’ambasciata di Mazzarino, non sostituirà Farm, di cui è parte integrante, ma sarà complementare e parte integrante delle attività complessive avviate e da avviare, tra le quali SPAB, la Società per Azioni Buone, un modello virtuoso e nuovo di creare valore economico per attività finalizzate all’arte e alla cultura, è una naturale estensione nel desiderio di crescere e inventare nuove sfide per un presente che scruta il futuro. Su questo ultimo progetto di Mazzarino, che ha uno scatto nella qualità degli spazi perché i due palazzi di Mazzarino hanno preservato quasi intatto il fascino delle loro epoche, cui si aggiungono i segni eleganti del contemporaneo, si intravede la raffinatezza di Bartoli che ne è il progettista, senza se e senza ma, la sua meticcia passione, mai nascosta, per le discipline del progetto e del segno, il suo gusto raffinato, l’invenzione del momento, il guizzo e l’intuizione, convogliate, in Palazzo Tortorici. Stanze dai cromatismi classici, aulici, ma saturi e in contrasto: oro, bronzo, argento, blu oltremare, ma anche rosa shocking, contrasti ed equilibri, con arredi intravisti, disegnati, ripensati, realizzati con semplicità e materiali poveri, ma di sicura espressività e in un serrato, elegante, continuo dialogo con gli spazi.

Andrea elabora, pensa, rielabora, guida le maestranze, conduce la danza della bellezza e del nuovo decoro, in perfetto equilibrio tra classico e contemporaneo, tra barocco e razionalismo, tra dentro e fuori, e lo fa nel modo più riconoscibile nel Palazzo Branciforti-Bartoli (una sua proprietà): qui lo stupore del design di interni farebbe invidia alla più nota firma di questa importante disciplina, che mai tuttavia raggiungerebbe il calore e la profonda sensazione di comfort che si percepisce in questi ambienti progettati e realizzati con l’attenta cura del padrone di casa. Quella di palazzo Branciforti-Bartoli è una grande bellezza che sorprende e stordisce, che procura una “sindrome” di desiderio del viverli, questi spazi, al contempo di benessere e quiete.

Lo spazio di “Plurals” in Palazzo Branciforti-Bartoli; Pino Scaglione;

In queste stanze che sanno di memoria viva, i blu, ancora i rosa, i verdi salvia e più delicati, chiari e scuri, intensi, decisi, le decorazioni contemporanee alle pareti che sorprendono ogni volta che le guardi, la sapiente reiterazione della lampada “Ariette” di Tobia Scarpa per Flos, una sorta di firma dell’autore, i busti d’epoca alternati a libri e riviste dei nostri giorni, una Olivetti Lettera 22 ancora pronta per scrivere, le vetrinette votive (mai viste) dense di bambinelli, santi, pecorelle e putti, lasciano spesso senza respiro per la loro forza narrativa ed evocativa di un tempo che rivive senza nostalgia. Arte e fotografia alle pareti descrivono, senza soste, un itinerario intellettuale-visuale originalissimo dei padroni di casa, del genio siciliano affamato e curioso di sapere, che si conclude, senza sfarzo, né retorica, nei bellissimi nudi di donna di un fotografo americano, ripresi in scatti notturni di una surreale Detroit, la stessa città cui guarda Bartoli tra stupore e ammirazione, quale modello insuperato di una comunità multirazziale che ha saputo reagire al fallimento, trasformandolo in una nuova, straordinaria occasione di rinascita, sostenuti dall’arte, dall’architettura, dalla visione e desiderio di una nuova città ecologica.  

Dettaglio di uno degli ambienti dell’Embassy, a palazzo Branciforti-Bartoli; Pino Scaglione;
Grazie Florinda, grazie Andrea, perchè “ogni volta che mi tocca di venire, mi prende allo stomaco, mi fa morire…”, perché torno di nuovo carico di energie, convinto che, tutti insieme, questa grande comunità positiva, possiamo costruire un mondo migliore, per noi e soprattutto per i nostri “Plurals”!
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