Frammenti.

Fotografie di Stefano Cigada a cura di Jill Silverman van Coenegrachts

Le fotografie sono reliquie del passato, tracce di ciò che è accaduto. Se i vivi si appropriassero di quel passato, se il passato diventasse parte integrante del processo di creazione della propria storia da parte delle persone, allora tutte le fotografie riacquisterebbero vitalità, continuerebbero ad esistere nel tempo, invece di essere scatti di un momento immobile. (John Berger, Uses of Photography, 1978)

La serie fotografica di Stefano Cigada sembra a prima vista, agli occhi di un pubblico non esperto, l’ennesima raccolta di scatti in bianco e nero di statue antiche romane. Non propriamente un soggetto inconsueto in una cultura che ama spasmodicamente le sue origini. Ma poste sotto la lente d’ingrandimento di un più approfondito esame, queste fotografie raccontano un’altra storia. Cigada, come molti altri poeti, scrittori e artisti, ha raggiunto tardi la sua maturità artistica, dopo aver speso una vita intera in altre attività professionali. Eppure, la sua passione per la fotografia ha radici profonde, che risalgono a quando, appena adolescente, portava con sé la macchina fotografica ovunque andasse, fedele compagna da allora sino a oggi. 

Una passione cominciata nella cucina di casa, quando, al fianco del padre, sviluppavano insieme le fotografie sul tavolo della cena: “per me era una vera e propria magia vedere apparire le immagini sul foglio bianco immerso nel liquido. Io e mio padre stampavamo fino a tardi le nostre foto; nel periodo estivo, poi, uscivo con la sua macchina fotografica o con quella di mio zio, una Rolleiflex, che aveva ancora l’esposimetro”.

Tra i ritratti agli amici e le foto delle vacanze, il lungo periodo di gestazione della sua vocazione artistica l’ha condotto sulla strada del giornalismo fotografico: dalla vendita alle riviste specializzate di foto con soggetti sottomarini, pesci e barche, è passato a interessarsi alla statuaria classica, grazie anche alla conoscenza del famoso mercante di antichità David Cahn a Basilea. 

Questo lungo periodo di incubazione gli ha dato il tempo di lavorare e di esercitarsi sulle sue idee a porte chiuse, studiando le opere d’arte e il lavoro di altri fotografi, facendo esperimenti con la sua macchina fotografica. 

Questa è la sua prima mostra e offre al pubblico un nucleo coerente di opere il cui soggetto è molto più ampio di quanto inizialmente supposto. Questa nuova serie di ventuno fotografie in bianco e nero presenta scorci di figure, pezzi di pietra colti con uno sguardo fugace. Ed è proprio quel breve istante, quel battito di ciglia, che noi chiamiamo “frammenti”.

Qui una ri-visitazione della statuaria classica, in senso lato e in senso stretto, racconta la storia di un uomo che osserva la luce, andando e ritornando più e più volte in quei luoghi che il pubblico riconosce immediatamente dai titoli. In quelle stanze l’artista contempla a lungo il passare delle ore, per fermare sulla pellicola quella frazione di secondo, quel preciso istante dell’anno in cui il gioco di luci e ombre all’interno della stanza si esprimono in modo trasformativo. 

A un primo sguardo potrebbe sembrare che il soggetto delle fotografie siano le statue. Tuttavia, rapidamente si comprende che esse sono la materia prima su cui si posa la lente, espedienti necessari per un paesaggio molto più vasto che include lo spettatore.

Museo Nazionale Romano, Roma
27.12.2017; 16.08
480×330 mm stampa fine art su carta d’archivio
©Stefano Cigada

Attraverso le fotografie il mondo diventa una serie di particelle isolate a sé stanti  e la storia, passata e presente, un assortimento di aneddoti e di faits divers. La macchina fotografica rende la realtà atomica, maneggevole, opaca. È una visione del mondo che nega la connessione e la continuità, ma che conferisce a ogni momento il carattere di un mistero. Susan Sontag, Sulla fotografia,  1977

Stefano Cigada si può definire, nella migliore accezione possibile della parola, un amateur; come il British Conceptual artists ART & LANGUAGE ha scritto in più occasioni, “noi vogliamo essere amateurs”. Ma che vantaggio c’è nell’essere un amateur? Perché le qualità che rendono interessante un “dilettante” sono la sua vulnerabilità e la sua apertura nei confronti dell’argomento che affronta. Essere o definire se stessi come un dilettante pone l’individuo in una condizione mentale meno strutturata, più immediata, che permette al suo processo creativo di occorrere in modo semplice e infallibile, entrando direttamente a contatto con la vera essenza del soggetto, in modo del tutto naturale e quasi per caso.

L’amateur si mette all’opera senza pregiudizi, con occhi spalancati e mente priva di preconcetti. Questa è stata una delle grande rivelazioni che l’ART & LANGUAGE ha condiviso con un pubblico variegato per oltre cinquant’anni, ma è una verità che resisterà alla prova del tempo, in un mondo dell’arte sempre più orientato al prodotto, stordito da ogni gamma possibile di immagini, siano esse scattate da una Nikon, da uno smartphone o da una videocamera.

Ma perché dovrebbe essere un vantaggio cimentarsi in un campo così profondamente radicato come la fotografia della scultura classica? 

Perché è proprio la freschezza dell’approccio e la non conoscenza del settore che rende il lavoro di Stefano così insolito. Prendiamo un esempio, analizziamo la più antica e la più recente di queste sorprendenti opere. 

Centrale Montemartini, Roma
16.6.2019; 15.59
480×330 mm stampa fine art su carta d’archivio
©Stefano Cigada

Da una parte abbiamo Museo Archeologico dei Campi Flegrei, Baia 09/11/14 12.19. Un titolo piuttosto lungo per questo sontuoso busto femminile rubensiano che sembra torcersi lievemente verso l’obiettivo. La lente cattura uno sprazzo di luce che illumina il lato interno del seno destro e il bordo dell’ombelico, appena sopra la frattura risaldata dei due tronconi della statua. Ma perché è così importante?

Ciò che ci cattura è l’ambiguità, il paradosso: la controrotazione della figura è accentuata dal rapido lampo di luce che colpisce la figura lateralmente, mentre il drappo di tessuto che si muove verso l’alto sembra aumentare la forza della torsione. Ma la solidità della pietra, a cui si contrappone la plasticità carnosa del ventre, rendono la statua al contempo immobile e viva. Tac. Eccolo. Era solo un giorno normale, nel novembre 2014, diciannove minuti dopo mezzogiorno. La luce ha dato un bacio caldo a questo solido blocco di pietra e per qualche fortunato motivo l’obiettivo della fotocamera era lì, aperto, pronto a coglierlo. Il cacciatore era lì, in attesa, da lungo tempo, pronto all’agguato.

Museo Archeologico Nazionale Palestrina 15/06/19 17.03

Sono trascorsi cinque anni e ci troviamo in un altro museo, in un tardo pomeriggio di metà giugno, prossimi al solstizio d’estate: il giorno più lungo dell’anno sta arrivando, quindi alle 17.03 il sole splende ancora alto nel cielo sopra Palestrina. Questa volta Cigada è alle prese con il fianco di un torso colpito duramente dalla luce, in modo molto meno romantico rispetto alla figura femminile che abbiamo visto nel paragrafo precedente. Qui il fascio di luce è freddo, angolato, stacca nettamente la figura dallo sfondo, piatto e scuro. Mentre la figura femminile era colta nell’atto di girarsi, quest’uomo mutilato si erge immobile, svincolato da qualunque fossero, in origine, la sua funzione e il suo scopo. Questa impotenza, questa mancanza, questa sensazione palpabile di qualcosa che è stato tagliato via, insieme al candore abbagliante della luce di giugno, che urta violentemente la parte mancante del busto, mi fanno quasi sussultare. Come se ci fosse stato un incidente di origini sconosciute e il dolore fosse ancora acuto. E così, dal nulla, con un po’ di fortuna, qualcosa mai esistito prima prende forma. L’obiettivo si è chiuso, prima che il sole raggiunga l’apice del suo cammino. Walter Benjamin ha compreso e condiviso questo concetto nel suo famoso saggio A Short History of Photography del 1931:


Per quanto abile sia il fotografo, lo spettatore prova un irresistibile impulso a cercare nell’immagine quella scintilla minima di caso, del qui e ora, con cui la realtà ha, per così dire, folgorato il soggetto nella foto; trovare quel punto impercettibile in cui, nell’immediatezza di quel momento passato, il futuro si inserisce in modo convincente, quasi come se guardando indietro potessimo scoprirlo. L’ossessione è quella necessità che spinge a visitare più e più volte uno stesso luogo o un oggetto, di continuo, senza mai stancarsi. Dopo anni di discussioni con Stefano riguardo la sua indagine artistica, ho finalmente capito che la sua opera non riguarda minimamente la scultura classica.

È qualcosa che mi colpisce in modo viscerale, mentre sono alla ricerca dell’essenza profonda della materia, in momenti differenti del giorno e dell’anno. Questo è ciò che è davvero importante per me: torno lì e sento, percepisco che il museo è stato creato per produrre un profondo turbamento emotivo nel mio stato d’animo. Quando la luce passa su queste statue nell’istante giusto, quello è l’attimo magico che voglio afferrare, e so che proprio quel momento è IL momento. Tra un anno saprò quale luce ci sarà in quel determinato punto e in quell’istante esatto, non appena prima, non un secondo dopo. La cosa più preziosa che abbiamo è il tempo: quando sento che QUEL momento è arrivato, sono consapevole che l’attimo dopo non esisterà più.

Centrale Montemartini, Roma
16.6.2019; 17.11
480x330mm stampa fine art su carta d’archivio
©Stefano Cigada

Cigada, ottobre 2019

È dunque qualcosa che ha a che fare con la performance del tempo tra le mura di un museo, nelle stanze dove la luce naturale dipende dall’apertura e dalla chiusura delle imposte, dove la forza o la debolezza dei raggi solari cambiano a seconda che sia estate o inverno. Cigada ha compreso questo fenomeno attraverso l’osservazione attenta e ripetuta di innumerevoli sculture classiche.

“Il tuo lavoro non è sulle statue”, gli ho detto “è sul tempo e il movimento. Guardale di nuovo. Mettiti comodo e siediti davanti al tuo lavoro, aspetta che siano le fotografie a parlarti”.

Questa idea di guardare e riguardare ha permeato tutte le mie conversazioni con Cigada negli ultimi anni, quando a intervalli regolari, mentre si aggirava per le stanze di svariati musei, portava alla mia scrivania esempi e risultati della sua ricerca, alcuni buoni, altri meno. Ma negli ultimi mesi c’è stato un profondo cambiamento. Gli ho chiesto se lo avesse percepito e se l’avesse esortato a sentirsi non più come semplice fotografo, ma come un artista concettuale, al pari di Jan Dibbetts, il maestro olandese che catturava lo scorrere del tempo sequenziando, una dopo l’altra, le immagini dello stesso paesaggio. O di Robert Mapplethorpe, che alla fine della sua vita, vessato dall’AIDS che inesorabilmente lo stava uccidendo, disse di non avere più la pazienza necessaria per gestire lo stress e le emozioni del fotografare soggetti reali, preferendo loro oggetti inanimati.

Le sculture classiche divennero il soggetto principale dei suoi ultimi scatti, in cui Mapplethorpe cercò di catturare il respiro del marmo. L’analogia tra il respiro del fotografo nell’attimo in cui scatta l’otturatore e l’essenza dell’oggetto il cui respiro sembra impossibile da rilevare, è il vero soggetto di questi artisti che, invece di usare il pennello, si affidano alla macchina fotografica. Ancora Susan Sontag sostiene: 

Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienze catturate, e la macchina fotografica è il braccio ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo.

Centrale Montemartini, Roma
16.7.2019; 17.20
480×330 mm stampa fine art su carta d’archivio
©Stefano Cigada

La magia di questi FRAMMENTI, lo sappiamo anche grazie ai recenti sviluppi della fisica teoretica, risiede nello strato subatomico della materia: il marmo è vivo, allo stesso modo delle piante e degli animali. A livello molecolare, la pietra si muove, in modo differente dalle altre specie animate, ma si muove. La luce del giorno, che cambia nel giro di un istante, fornisce una prova di questo dato scientifico, quasi come in una performance. Cigada va alla ricerca di quell’esatto momento, che carpisce dopo innumerevoli prove ed errori: la sua ossessione ci permette di assaporare la fugace ma palpabile evidenza di una materia viva, che respira. 

La mostra accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso spazio e tempo, catturati in quell’attimo in cui il repentino cambiamento di luce fa sì che il blocco di marmo sembri volgersi, piroettare su se stesso, librarsi dal peso, respirando, piegandosi, sospirando. È questa vita intima della materia il vero soggetto delle opere di Cigada.

Il mio è un eterno divenire: agli albori del mio lavoro, ero interessato alle statue con vistose fratture, non so perché, ma la frattura era la mia ossessione, la mia passione. Ma non ha funzionato. Da una parte è stata una sorpresa, ma di fatto presto mi sono stancato: ho capito che c’era qualcosa di più, qualcosa da sondare, scoprire, afferrare. Cosa sia successo alla statua e perché, non è dato saperlo, ma a un certo punto, astraendo dalla frattura al lacerto, ho scoperto che ciò che mi colpiva davvero era il frammento.

Nietzsche scrive che un frammento è un infinito, mentre Leonardo pensava che fosse la parte di un’idea e non un microcosmo a sé stante.

Le fotografie sono reliquie del passato, tracce di ciò che è accaduto.

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