di Alessandro Mauro
C’è un uomo dal volto incavato e due occhi che la sofferenza, il dolore e la resa, ha ormai quasi spenti. Non ne può più. Scrive, stremato. Ha esaurito tutte le energie. Di più, vuole morire. Un uomo così non potrebbe mai essere Giuseppe Pagano; la sua sfrontata vitalità, la sua incondizionata passione non gli consentirà mai dinieghi, tentennamenti. Soprattutto nei momenti decisivi. L’Istria è una terra che ha vissuto alterne vicende politiche, come tutti i luoghi schiaffeggiati dalla storia. È sotto il dominio asburgico che Giuseppe Pogatschnig vi nasce, nel 1896: lingua, famiglia e vocazione ostinatamente italiani.
Compie gli studi liceali nella Trieste mitteleuropea di Svevo, Saba, Joyce, Slataper. Quando, nel 1914, deflagra il primo conflitto mondiale fugge a Padova, dove completa gli studi liceali e si arruola, volontario, nell’esercito italiano: lui che tecnicamente italiano non era, essendo austriaco di nascita. Ma si sa quant’è complessa e dibattuta la vicenda istriana e non stupirà poi tanto la caparbietà irredentista di Pogatschnig: il 24 maggio del 1915 entra in guerra servendo l’Italia con il nome di Giuseppe Pagano. Riceve due medaglie al valor militare ma viene catturato dagli austriaci – di fatto suoi ex connazionali – nei pressi di Gorizia nel 1917; venne portato in Boemia e dopo un anno di prigionia, travestito da soldato austriaco rientra a Trieste. Viene catturato nuovamente, ed egli nuovamente riesce a fuggire e tornare nella città friulana. Dopo la terza medaglia e l’esperienza della Grande guerra Pagano rientra nella sua città natale, Parenzo, ora italiana. Convinto irredentista, si interessa alla vicenda di Fiume e al patriottismo ostentato dai primi vagiti del Fascismo; fonda con amici il Fascio di Parenzo e prende parte all’impresa di Fiume guidata da D’Annunzio.
Si trasferisce a Torino per iscriversi alla Facoltà di Architettura del Politecnico, qui conosce e frequenta il critico d’arte Lionello Venturi e il giovane Edoardo Persico. In breve tempo trova importanti commissioni: vince due concorsi per le realizzazioni di due ponti e progetta alcuni padiglioni per l’Esposizione Internazionale di Torino del 1928. Le prime importanti opere di questo periodo le realizza assieme all’amico fraterno Gino Levi Montalcini, il fratello della futura scienziata e premio Nobel Rita e della pittrice Paola. Il Palazzo per gli uffici Gualino, l’opera più nota del periodo torinese, esalta la critica più attenta; è una fase di grande crescita per Pagano, questa, le sue opere oscillano, caute, tra un razionalismo moderatamente internazionale e un monumentalismo rattenuto dal desiderio d’incipriarsi di quella storia che è la ricchezza e il fardello di molta architettura italiana. Nel 1932 Pagano si trasferisce a Milano e dall’anno successivo dirige la rivista «Casabella» facendola diventare, nel giro di pochi anni – anche grazie al determinante contributo di Edoardo Persico che lo affiancherà alla direzione – una delle più importanti riviste d’architettura dell’Occidente. Il successo di «Casabella» è attribuibile anche al fatto che in quegli anni la rivista ospitasse opinioni diversificate, aperte al mondo della cultura e non esclusivamente “tecniche”. Ecco allora che si potevano leggere articoli di artisti come Carlo Carrà e Aldo Palazzeschi o scrittori come Carlo Levi, Massimo Bontempelli o Elio Vittorini. Nello stesso anno progetta l’Istituto di Fisica dell’Università di Roma, un edificio che mostra la capacità di Pagano nell’addomesticare il razionalismo “astratto” per farlo convergere con quello che Rogers, qualche anno più avanti, chiamerà «preesistenze ambientali».
Nel 1936 dirige la Triennale di Milano curando anche l’importante mostra sull’architettura rurale italiana, composta da fotografie che aveva scattato in giro per la penisola. Pagano amava l’architettura degli edifici umili, vi trovava «strani e commoventi precedenti» dell’architettura razionale: la precisione, il rigore, e la sottomissione alla funzionalità fanno di quegli edifici – fu uno dei primi a notarlo – delle costruzioni straordinariamente moderne. L’architetto istriano accoppiava alla passione per la fotografia (che condivideva col giovane amico Luigi Comencini, a quel tempo studente di architettura a Milano) quella per il cinema, in quegli anni, infatti, faceva parte di un cineclub con Giangio Banfi ed Enrico Peressutti (architetti dello studio BBPR), Luigi Comencini e Alberto Lattuada. D’altronde Pagano, tra le sue innumerevoli collaborazioni, vantava anche quelle a riviste cinematografiche; e dal suo soggiorno torinese aveva conosciuto Mario Soldati, e in seguito conoscerà pure Dino Risi, che dal 1941, quando Pagano co-dirigerà «Domus», scriverà per quella rivista. Pagano era anche un fascista, ma era soprattutto un uomo onesto e appassionato, è per questo che durante quella Triennale del ’36 che dirigerà, invitò il critico di regime Sommi Picenardi ad un confronto pubblico sull’arte moderna, lui, convinto assertore di tesi sull’arte che in Italia faticavano a farsi strada proprio a causa dell’asfissiante presenza del regime anche nella produzione artistica. Sommi Picenardi rifiutò e gli strascichi di questa vicenda si trascinarono fino a farne nascere una vertenza cavalleresca, che si concluderà con le prudenti dimissioni di Pagano, impostegli dalla direzione della Triennale per tutelarlo. Ma lo spirito battagliero dell’architetto di Parenzo non si placa e nello stesso anno, durante un convegno all’Accademia d’Italia, attacca molto duramente lo scrittore Ugo Ojetti – nelle lettere private di Pagano soprannominato «sua eccellenza archi e colonne» – portavoce di un rigido tradizionalismo. Dopo essersi concluso il cantiere per quello che è forse il suo capolavoro, l’Università Bocconi di Milano, nel 1941, Pagano accetta la conduzione della rivista «Domus», ma dopo pochi mesi viene richiamato alle armi a seguito della sua richiesta volontaria. Aveva quarantacinque anni.
Il maggiore Giuseppe Pagano guida un drappello d’uomini in Albania, ma continua, per corrispondenza, la sua collaborazione a «Casabella», e continua, soprattutto, la sua battaglia per l’architettura moderna. A seguito della pubblicazione dell’articolo “Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali?” il direttore della stampa italiana, Gherardo Casini, richiama Pagano. Nel numero seguente della rivista Pagano, per nulla intimorito, fa pubblicare un altro articolo, ancora più acuminato del precedente: la rivista viene sequestrata; Pagano scrive allora a Casini una lettera privata infuocata, e il direttore della stampa italiana risponde, compunto: «Ho eseguito il sequestro di Casabella che conteneva il vostro articolo perché ne ho avuto l’ordine». L’architetto, impavido, gli invia una cartolina: «Poiché siete stato soltanto un “trasmettitore di ordini” vi sarò grato se vorrete far leggere la mia lettera a chi vi ha impartito l’ordine del sequestro». Nel ’42 rientra dal fronte e il rapporto, sottilmente sadico, che lo lega al fascismo, si spezza definitivamente; come ha scritto Rogers, in un testo che ricorda l’amico: «non ci accorgemmo subito che, per amore dell’amore, rischiavamo di avere un figlio da una prostituta»; Pagano lascia il partito ed entra nella Resistenza.
Il 19 luglio del ’43 muore Giuseppe Terragni. Quando Pagano ne ha notizia, cinque giorni più tardi, scrive: «che la mia verde maledizione secca e rabbiosa e demoniaca si scarichi come un colpo di clava sulle teste di chi sappiamo. E di Ojetti e di Piacentini e di tanti altri mezzi coglioni ingloriati si faccia un sottofondo da latrina. Non so dire. Vorrei sparare subito e spaccare teste». Giancarlo Palanti, che ha ripercorso la sua biografia nel numero speciale che «Casabella» gli ha dedicato nel dicembre 1946, ricorda quando, nel novembre del ’43, Pagano si trovava a Carrara, attivo nell’organizzazione dei gruppi armati della Resistenza, e con altri attendeva il suo arrivo a Milano:
Il tempo passa e Bepi non arriva; lo tempestiamo di lettere, di telegrammi; viene il 10, il 15, il 20 e finalmente, il 20 novembre una busta gialla con una incerta calligrafia sconosciuta e il nome di uno sconosciuto mittente ci porta un suo affrettato biglietto a matita. «Ti scrivo questo biglietto dal Castello di Brescia dove mi trovo in seguito al mio arresto a Carrara… La mia situazione è seria. Non mi dilungo troppo in particolari, ma la cosa può avere per me ben poco liete conseguenze…». Sapremo poi che la sera del 9 novembre, durante una delle sue ispezioni nella zona, a Massa, per una fatale indicazione sbagliata, era andato proprio a cadere nella trappola, all’ingresso della caserma della milizia fascista.
Qui inizia l’incredibile dramma umano di una persona – e di una nazione – che si farebbe fatica a credere reale: tanto romantica è stata la sua ostinazione, tanto eroico il suo comportamento. Pagano è prigioniero nella stessa cella che cent’anni prima fu del patriota Tito Speri, ma la rimozione della libertà non lo dispera:
[…] basta garantire la solitudine e dare ad un uomo un pezzo di carta, un libro, dell’inchiostro, per regalargli tutta quella libertà interiore che nessuno può togliere a nessuno. E così io scrivo, disegno, leggo e passo le mie giornate con una metodicità da certosino pensante. E una straordinaria serenità e lucidezza di mente e coscienza di forza resistente mi si accresce di giorno in giorno.
Riesce a comunicare con l’esterno, ricevere e inviare lettere, tramite la complicità di qualche guardia carceraria, e così trascorre le giornate tra stati umorali altalenanti e privazioni: «Nella cella sopra la mia», scrive dal carcere, «la settimana scorsa hanno ospitato un mio collega, preso coi ribelli, e l’hanno fucilato l’altro giorno, si sta allegri!… Ormai mi sono preparato anche a questo e sono diventato più sereno di un cinese»; ritrova distensione, ardore di vita e ironia lavorando a progetti urbanistici: «Viaggio alla città sperimentale: lavoro alacremente che è un piacere. Speriamo che non mi liberino troppo presto, perché in nessun luogo si può star più tranquilli e più sicuri di qua». Il regime, intanto, visto il disastroso sviluppo della guerra, propone l’amnistia ai detenuti che accetteranno l’arruolamento; Pagano rifiuta categoricamente: «[…] sappiate che non posso né voglio assolutamente nessuna soluzione di compromesso. Preferisco prendermi i miei trent’anni di galera piuttosto che dichiararmi pentito o magari filo-fascista. Ormai basta con queste porcherie!» Gli viene comunicato un imminente trasferimento a Parma dove verrà giudicato. Ha pochi giorni: organizza una fuga. Annota su un quaderno tutte le informazioni necessarie: i turni delle guardie, la custodia delle chiavi; disegna piante dell’edificio, individua le uscite. Ricava un’arma estraendo da una branda un pezzo di metallo e comunica agli altri detenuti di fare altrettanto. Il 13 luglio 1944, a seguito di un bombardamento nelle vicinanze, le guardie si riducono: è il momento buono. Il piano architettato – è il caso di dirlo – da Pagano e da altri detenuti riesce: duecentosessanta prigionieri evadono dal castello di Brescia e guadagnano la libertà disperdendosi nelle campagne, senza uccidere o ferire nessuno. Tra innumerevoli peripezie raggiunge Milano e riabbraccia gli amici di sempre; ma nonostante le insistenze di tutti Pagano riprende da subito una febbrile attività antifascista. A uno di questi convegni clandestini si decide un’operazione per piazzare delle linee telefoniche segrete, che avrebbero consentito la comunicazione con altri gruppi di Partigiani, ma alla riunione partecipano anche tre infiltrati del regime e il giorno dell’incontro vengono tutti catturati: questa volta per Pagano si aprono le porte dell’inferno. L’inferno si chiama «Villa Triste», ed è situato in via Paolo Uccello a Milano. Solo qualche mese prima il famigerato Pietro Koch e la sua banda, lasciata Roma – nel frattempo liberata dagli Alleati – si insediò nella Villa Fossati del capoluogo lombardo, ospitando uno dei centri di tortura più terribili istituiti sotto la Repubblica di Salò; terribile come può esserlo un centro di tortura, ma soprattutto come può esserlo uno diretto da Pietro Koch, uno dei maggiori criminali nazi-fascisti che aveva già contribuito al massacro delle Fosse Ardeatine con il suo munifico bottino di ventuno omicidi. Alla Villa Triste di Milano, alle torture che Pagano e gli altri subivano quotidianamente (quando non erano rinchiusi in celle alte meno di un metro e settanta) contribuiva anche Osvaldo Valenti, un altro tra gli incredibili personaggi che hanno arricchito o deturpato la vita di Giuseppe Pagano. Fino al 1944 Valenti è stato uno dei maggiori attori del nostro cinema: ha lavorato con Blasetti a film divenuti dei classici come Ettore Fieramosca o La cena delle beffe, e con Mario Camerini, probabilmente i maggiori registi del ‘cinema dei telefoni bianchi’. Ma ha recitato anche per Goffredo Alessandrini, Camillo Mastrocinque, Raffaello Matarazzo e, ironia della sorte, un amico di Pagano: Mario Soldati. Fino al ’44, però, perché al crollo del fascismo si arruola alla X Mas di un altro leggendario personaggio, il principe Junio Valerio Borghese.
Il giorno della sua cattura Pagano, che non era insolito frequentatore di versi, scrive: Su, uomo: valga il tuo dolore e l’onta che ti angoscia e il rimorso che ti addenta a trovar nel nemico la sua fede. E sarà meno assurda la tua morte.
Uno dei compagni di prigionia di Pagano è stato Mino Micheli che, uscito vivo, ha poi scritto il libro di memorie I vivi e i morti, dove ricorda:
Mi sembra di risentire ancora la voce tuonante di Pagano, che per distogliere gli aguzzini da me – preso per il collo e trascinato sotto la doccia bollente a suon di bastonate – li aveva attirati su di sé insultandoli: «Inumani, pazzi, non siete neppure intelligenti: bestie, siete, bestie feroci, ammazzateci, non comportatevi da vili; noi il coraggio di morire l’abbiamo!». Gli furono addosso come belve, ed anche per lui si aprì il getto dell’acqua bollente, ma neppure questo lo indusse al silenzio, nulla riusciva a piegarlo: «Vigliacchi assassini, mi fate pena!», gridava loro nonostante fosse tutto scorticato e tumefatto dalle botte. Ma non ci fucilarono e smaltimmo in cella ciò che avevamo subìto.
Quante volte si era fatto avanti col suo coraggio e la sua dignità, per prevenire le trappole più infami! Quante volte si era fieramente addossato colpe commesse da altri, per salvarci dalla fucilazione! Kock tratta con alcuni prigionieri, tra i quali Pagano, ma a seguito di altre complesse vicende che s’aggrovigliano alla caduta del Fascismo e l’inarrestabile avanzata degli Alleati, viene arrestato. Pagano rimane recluso e organizza una fuga per il primo di ottobre, ma il giorno prima viene trasferito al carcere di San Vittore, da qui a Bolzano e poi, destinazione finale, Mauthausen. Non è difficile crederlo, il campo di concentramento di Mauthausen-Gusen fu un inferno molto peggiore della Villa Triste di Milano; Pagano si trova ancora una volta, suo malgrado, ad attraversare la storia, quella con la S maiuscola, quella che nei pressi d’una tranquilla cittadina austriaca soppresse più di centoventimila persone. Il comandante del campo, Franz Ziereis, era solito accogliere i detenuti urlando: «Qui vi è solo un’entrata; l’unica uscita è il camino del forno crematorio». Non aveva tutti i torti, furono quasi seimila gli italiani morti. Non è nelle intenzioni di questo testo ricordare le molteplici forme di sterminio adottati dai nazisti, basterà rammentare solo alcune delle torture subite da Pagano: svegliarsi alle quattro del mattino, percorrere due chilometri a piedi per raggiungere la stazione che li porterà a Melk vestiti solo di pantaloni e camicia, tutto l’anno, compreso il rigido inverno austriaco. Molti morivano di ipotermia, a volte volontariamente indotta, come quando costringevano gruppi di prigionieri a passare la notte fuori dai dormitori e l’indomani venivano raccolti e ammucchiati assieme agli altri cadaveri per finire dentro ai forni. A Melk si scavava la roccia, più di dieci ore al giorno, e non era difficile rimediare le violente attenzioni di qualche nazista, per aver inciampato, per essersi fermati a riposare o per puro capriccio. È quanto accadde a Pagano, che finisce in infermeria, in fin di vita, dopo il pestaggio d’una guardia. Sono mesi di lenta consunzione: cibo scarsissimo, lavoro inumano, nessuna igiene personale, e morti. Un numero impressionante e sempre crescente di morti che Pagano vede ogni giorno: nei cortili, nei dormitori, alla cava e dalla ciminiera del campo: la nera caligine che macula il cielo.
C’è un uomo dal volto incavato e due occhi che la sofferenza, il dolore e la resa, ha ormai quasi spenti. Non ne può più. Scrive, stremato. Ha esaurito tutte le energie. Di più, vuole morire. Quell’uomo è Giuseppe Pagano. Quel che resta della sua sfrontata vitalità, della sua incondizionata passione gli serve per scrivere le ultime parole ai suoi cari:
Paola, ti mando un ultimo saluto. È probabile che la nostra bella vita così intensamente felice sia definitivamente interrotta. Abbi forza. Non piangere troppo e sii fiera della mia vita generosa. Pago di persona. Particolari della mia esistenza e dei miei ultimi giorni te li daranno i compagni superstiti. Voglio essere forte, vicino a te sempre, presente in tutti i tuoi sogni. Pensa a riprenderti, non abbandonarti alla malinconia. La vita ti farà ancora sorridere e io ne sarò tanto felice. Bacia la bimba; essa possa vedere il nuovo mondo. Pensi al suo papalino dei momenti più belli! A te tutto il mio amore, tutta la mia grande fede nella tua grande bontà. Quando mi ricorderai voglio da te ricordi allegri – quelli dei nostri tanti intervalli felici. Vivi in compagnia, evita la solitudine. Sei ancora giovane ed hai diritto ancora alla parte di felicità (grande! grande!) che io m’ero ripromesso di darti. Addio. Bacioni a Vanna e agli zii. Bubi
Occupati affinché Paola abbia qualche aiuto per questa esistenza. Ho dato la vita per il Partito e ne sono fierissimo. Avevo tanti sogni, tanti progetti e tante speranze quasi certe. Finito! A voi continuare bene e meglio. Addio. Bepi
Il 22 aprile 1945 Giuseppe Pagano morì, lo stesso giorno di Gian Luigi Banfi, anche lui deportato a Mauthausen. Solo tredici giorni più tardi il campo di concentramento austriaco verrà ufficialmente “liberato”. Il 30 aprile Osvaldo Valenti viene fucilato dai Partigiani per ordine personale, pare, di Sandro Pertini. Il 23 maggio Franz Ziereis morì all’ospedale militare americano di Gusen dopo essere stato catturato. Il 5 giugno Pietro Kock venne giustiziato a Roma. A filmare la sua esecuzione e a rilasciare una testimonianza determinante per la sua condanna, Luchino Visconti.
Domani penserò alla morte […]
I miei amici parleranno/
di piccoli affari domestici/ quando mi seguiranno
al cimitero/ E non vale avvertire: non venite!/
Ci vengono/ E verranno magari da lontano/
e parleranno di cose segrete/ che io non saprò mai:/
le coincidenze dei treni/ o i progetti di nuove città.
Almeno sghignazzassero pensandomi/
vivo e scurrile e triviale/: Mi sentirei ancora presente/
come quando parlavo con loro/ di merda e di amori e di arte/
Una volta ero un uovo maturo/
Ma sarà bello non sentire/ il pianto di Paola/
Sarà sottile sottile/ e maledirà Dio